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Enciclopedia

Pap-Test

CHE COS’È

Rappresenta il maggior successo in tema di prevenzione oncologica su larga scala, l’indagine che ha radicalmente riscritto la lotta al tumore del collo dell’utero. “Pap” indica le iniziali del cognome di un dottore greco, George Nicholas Papanicolaou, l’inventore di quest’esame salvavita, la cui geniale intuizione rimase inascoltata per quasi 20 anni: solo negli anni ‘40, infatti, venne ripreso l’articolo che Papanicolaou aveva pubblicato nel 1923.

 

In breve, il Pap-test si diffuse in tutto il mondo, salvando centinaia di migliaia di donne dallo spauracchio del cancro all’utero. Quest’esame (chiamato anche striscio vaginale) permette il riconoscimento delle cellule provenienti dalle lesioni che precedono l’insorgenza di un tumore o da una lesione tumorale già presente.

 

 

COME VIENE SVOLTO?

Il ginecologo invita la paziente distendersi sul lettino e a collocarsi in posizione ginecologica, cioè sdraiata a gambe divaricate e con le cosce appoggiate ai reggicosce. A questo punto, il medico, dopo aver evidenziato il collo dell’utero, mediante un piccolo strumento chiamato “speculum”, introduce – in maniera del tutto indolore – una spatola, con cui provvede a prelevare il materiale contenuto sulla cervice uterina e nel suo canale, ovvero cellule e muco.

 

Una volta finito, il tutto viene strisciato su dei vetrini, che, successivamente, verranno colorati in laboratorio tramite il famoso metodo messo a punto da Papanicolau. Dunque, il Pap-test è un esame citologico, in quanto studia – con l’aiuto del microscopio e la colorazione dei vetrini – le caratteristiche delle cellule prelevate dal collo uterino.

 

Ma che cosa riesce a vedere l’occhio dell’esaminatore? L’osservazione può individuare presenze diverse: cellule normali, altre affette da qualche alterazione assolutamente benigna (legata magari a un’infezione), cellule alterate a causa di un processo infiammatorio, elementi cellulari tipici della menopausa e anche eventuali anomalie tout court.

 

Per etichettare queste ultime, è stato introdotto il concetto di CIN, iniziali dell’espressione “neoplasia cervicale intraepiteliale” (Cervical Intraepitelial Neoplasia): include tutte quelle anomalie cellulari ed epiteliali che testimoniano la graduale proliferazione di cellule atipiche con una variabile potenzialità evolutiva verso il cancro invasivo della cervice uterina.

 

 

Le alterazioni cellulari in questione sono di vario grado, potendo coinvolgere solo le cellule superficiali dell’epitelio, quelle intermedie o quelle più profonde, fino alla cosiddetta “membrana basale” (la barriera che separa gli epiteli dai vasi sanguigni e connettivali sottostanti: quando viene varcata, il tumore diventa invasivo): in questo caso si parla rispettivamente di CIN I (neoplasia cervicale intraepiteliale di I grado), di CIN II (neoplasia intraepiteliale di II grado), CIN III (neoplasia intraepiteliale di III grado), che coincide con il cosiddetto “carcinoma in situ”.

 

Nella pratica clinica si è poi introdotta la classificazione citologica di Bethesda, determinata allo scopo di stabilire una terminologia diagnostica uniforme: utilizza l’acronimo SIL per indicare la “lesione squamosa intraepiteliale” e ha finito per raggruppare le precedenti etichette in due tipologie di lesioni (che necessitano di un diverso approccio terapeutico), ovvero LSIL (basso grado), che comprende la displasia lieve (CIN I), e HSIL (alto grado), che abbraccia invece la displasia moderata-grave (CIN II-III).

 

Da alcuni anni, poi, si ha a disposizione un sistema di lettura computerizzato (chiamato “Pap-Net”) in grado di permettere una maggior precisione nell’interpretazione dei dati: la lettura al computer può permettere di ridurre di un terzo i falsi positivi, cioè i casi in cui le cellule normali vengono scambiate per forme neoplastiche.

 

Le cellule prelevate e “strisciate” su un vetrino costituiscono il Pap-test su fase solida; una procedura alternativa, ma anche più affidabile, consiste nel trasferire le cellule in un liquido di lavaggio (si parla di Pap-test in fase liquida), per filtrare soltanto quelle che interessano specificamente, scartando le impurità (muco, batteri, sangue, detriti cellulari).

 

La procedura consente, dunque, di leggere unicamente gli elementi cellulari “puliti” e filtrati, il che incrementa ulteriormente la sensibilità e la specificità del test, con una drastica riduzione dei preparati “non adeguati”. Per questo esame non è necessaria alcuna preparazione particolare, mentre è bene astenersi dai rapporti sessuali nelle 24 ore che precedono il test ed evitare di sottoporsi a lavande interne o di impiegare creme, ovuli o candelette vaginali nelle 24-48 ore precedenti.

 

A partire dal primo rapporto sessuale fino a circa 70 anni di età, è necessario sottoporsi a un Pap-test ogni 3-5 anni. Le indicazioni più recenti della comunità scientifica indicano di introdurre dopo i 30 anni il test HPV, per rilevare la presenza del papillomavirus. Se negativo, anche il Pap test potrà essere eseguito a intervalli di tempo più lungo, come consigliato dal ginecologo. Anche in caso di assenza di rapporti sessuali si ritiene che una donna, a partire dai 18-20 anni, debba effettuare questo tipo di esame che non causa né dolore né abrasioni.