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La ricerca traslazionale sul tumore dell’ovaio: nuovi traguardi e sfide

Perché è importante fare ricerca traslazionale sul tumore dell’ovaio per migliorare diagnosi, terapie e prognosi? Il tumore epiteliale maligno dell’ovaio, comunemente noto come “tumore dell’ovaio”, è una malattia molto complessa, sia per quanto riguarda il suo decorso clinico, sia per le sue caratteristiche biologiche e patologiche.

È esperienza clinica comune che pazienti che hanno ricevuto la stessa diagnosi e vengono quindi sottoposte allo stesso regime terapeutico hanno una prognosi molto diversa, non prevedibile sulla base delle informazioni cliniche e patologiche raccolte al momento della diagnosi. Questa semplice osservazione ci dice come ancora oggi, nonostante tutti gli sforzi e gli avanzamenti tecnologici, non siamo ancora in grado di sviluppare delle strategie terapeutiche in grado di curare tutte le pazienti con diagnosi di tumore ovarico. Ciò è largamente dovuto al fatto che le nostre conoscenze sulla natura e biologia del tumore ovarico sono ancora molto superficiali, scarse e frammentarie.

È importante sottolineare, però, che abbiamo fatto importanti passi in avanti e che possiamo farne ancora. In questo articolo raccontiamo i progressi del team di ricercatrici, ricercatori e medici Humanitas in fatto di ricerca traslazionale sul tumore dell’ovaio e i progetti in programma, che Fondazione Humanitas per la Ricerca intende finanziare grazie alla raccolta fondi.

Sviluppare le conoscenze sul tumore ovarico

È convinzione comune che per migliorare la cura del tumore ovarico dobbiamo incominciare a sviluppare una conoscenza a 360 gradi, che si focalizzi non solo sulle caratteristiche delle cellule tumorali ma anche sulla loro interazione con il microambiente circostante. Abbiamo l’obiettivo di capire perché cellule deputate al controllo e alla sorveglianza, come quelle del nostro sistema immunitario, invece che eliminare il tumore all’esordio, ne diventano complici, creando così un ambiente favorevole alla crescita e allo sviluppo del tumore stesso.

Un solo nome, tante malattie

Quando parliamo di tumore ovarico nella maggior parte dei casi ci troviamo davanti a una patologia diagnosticata tardi, con metastasi già presenti non solo sulle ovaie, ma anche sugli organi presenti nella cavità addominale e in alcuni casi anche a distanza, in organi localizzati nelle aree extra addominali. Parliamo di tumore dell’ovaio, ma non è chiaro quale sia il tessuto di origine che subisce la trasformazione tumorale.

È verosimile che nella maggior parte dei casi la malattia origini da una microscopica lesione a livello delle tube, mentre solo in una frazione di casi l’origine può essere dall’epitelio ovarico o dal peritoneo. La complessità di questa malattia è tale che secondo alcuni scienziati il termine stesso “tumore dell’ovaio” sarebbe sbagliato, e fuorviante.

Queste semplici considerazioni ci aiutano a capire come mai questa patologia rara abbia una prognosi infausta con un alto tasso di mortalità nonostante gli innumerevoli sforzi e le innovazioni introdotte in questi anni, sia a livello diagnostico che terapeutico.

La ricerca traslazionale sul tumore dell’ovaio in Humanitas

Un punto fermo da cui partire, fortunatamente, esiste. Quando la malattia viene diagnosticata ancora confinata nella sola sede ovarica (stadio 1) la sopravvivenza supera l’80% a cinque anni dalla diagnosi, mentre crolla al 20% quando alla diagnosi la malattia è diffusa in diverse sedi dell’addome (stadio 3) o a distanza (stadio 4).

Lo stadio, cioè l’estensione della malattia definita al momento della prima chirurgia, è oggi il principale fattore prognostico a disposizione dei medici per capire come procedere. Il tumore ovarico, quando confinato alla sola sede ovarica è curabile e risponde molto bene alle terapie convenzionali. Quindi, il primo problema che deve oggi affrontare la ricerca traslazionale è quello di sviluppare e fornire ai clinici gli strumenti che permettano di aumentare la diagnosi di tumori ovarici allo stadio 1.

Tuttavia, circa il 20% delle donne con diagnosi di tumore ovarico allo stadio 1 hanno una recidiva che risulta non più trattabile e che porta al decesso. Il secondo importante problema della ricerca traslazionale è capire perché alcuni stadi 1 vanno incontro a recidiva.

In questa progettualità si inseriscono i programmi di ricerca traslazionali che il dr. Sergio Marchini, responsabile dell’Unità di Genomica Traslazionale e della facility di Genomica in Humanitas, sta portando avanti presso i laboratori del Cancer Pharmacology Group diretto dal Prof. Maurizio D’Incalci.

Diagnosi precoce e tumore ovarico

Come abbiamo detto in precedenza, se la malattia viene riconosciuta nelle fasi iniziali, quando il tumore cresce confinato alla sola sede ovarica, la prognosi è molto buona. I protocolli attuali (chirurgia coadiuvata in alcuni casi da protocolli chemioterapici) registrano una sopravvivenza che raggiunge e superal’80% dopo 5 anni dalla diagnosi.

Su questo filone di ricerca si inserisce il primo dei risultati ottenuti in questi anni presso i laboratori di Humanitas dal dottor Marchini e da Maurizio D’Incalci, professore di farmacologia in Humanitas University e responsabile del laboratorio di Farmacologia Antitumorale in IRCCS Istituto Clinico Humanitas. L’analisi del DNA estratto dai tessuti prelevati dai tamponi del Pap test, l’esame comunemente usato per lo screening del papilloma virus e per la diagnosi precoce del carcinoma della cervice uterina, permette di identificare la presenza del tumore ovarico fino a 9 anni in anticipo rispetto alle prime manifestazioni della malattia.

Una buona notizia per le donne

Questa è una buona notizia perché potrebbe permettere di intercettare il tumore ovarico prima che diventi pericoloso per la sopravvivenza, a partire da un esame semplice e poco costoso al quale le donne già si sottopongono. Sono già iniziati studi su grandi casistiche per validare questo test, che ci auguriamo possa essere applicato fra qualche anno su tutta la popolazione femminile, soprattutto sulle donne per le quali esista una forte rischio di sviluppare la malattia a causa di mutazioni ereditarie in alcuni geni ( i.e., BRCA1 e BRCA2). Nel prossimo futuro, questo studio su Pap test e cellule del carcinoma ovarico, che oggi ha riguardato donne che hanno già sviluppato la malattia (si tratta di uno studio retrospettivo) verrà esteso a un numero maggiore di pazienti.

L’idea dei ricercatori e delle ricercatrici è anche quella di realizzare uno studio prospettico, su donne che non sono malate ma che, per esempio, hanno familiarità per questo tumore.

L’impronta digitale del tumore ovarico

Cosa si può fare, invece, per quel 20% di donne che nonostante la diagnosi allo stadio 1 vanno incontro a recidiva? Il progetto di Ricerca “dISCOVER-Integrated Signature Classifier to assess prognosis in stage I epithelial OVarian cancer”, finanziato da AIRC e Fondazione Humanitas per la Ricerca e coordinato dal dott. Marchini Sergio, ha avuto l’obiettivo di comprendere le caratteristiche molecolari che possono guidare le cellule tumorali a rispondere o meno alla terapia.

Il risultato del lavoro fatto negli ultimi cinque anni ha permesso di decodificare alcune importanti informazioni contenute all’interno del DNA dei tumori allo stadio 1, poi ritrovate anche negli stadi avanzati: una vera impronta digitale delle cellule tumorali.

«In breve, con una tecnica di analisi molto semplice, poco costosa e facilmente traslabile nella pratica clinica, definita Shallow Whole Genome Sequencing (analisi del profilo genomico a bassa risoluzione, sWGS) abbiamo definito che il genoma delle cellule tumorali ovariche, indipendentemente dalle caratteristiche istologiche e cliniche, può essere classificato in tre macro-gruppi definiti “stabile (S)”, “instabile(U)” e “altamente instabile (HU)” – spiega Marchini –. Queste tre classi hanno non solo una prognosi diversa, in quanto gli S sono quelli che hanno prognosi migliore, ma anche una diversa interazione con le cellule del microambiente circostante. Il progetto dISCOVER ha portato alla luce una caratteristica delle cellule tumorali che condiziona la prognosi e influenza la composizione del microambiente. Tutto questo grazie a una tecnica molto semplice come lo sWGS, che analizza le macro alterazioni del DNA e che è stata usata anche per la diagnosi precoce nel Pap test e per monitorare l’evoluzione della recidiva partendo dalla biopsia liquida».

Un solo strumento per molte domande: la biopsia liquida

Un corollario del progetto dISCOVER è stato lo sviluppo di un sistema per intercettare la ricomparsa della malattia. Come sottolineato, uno dei problemi clinici è che oggi non ci sono gli strumenti per prevedere quando e come il tumore ovarico si ripresenterà (è la recidiva) dopo una inziale risposta terapeutica.

Usando la stessa tecnologia di sequenziamento del DNA, lo sWGS, oggi è possibile tracciare nel plasma (biopsia liquida) la presenza della malattia e misurare nel tempo le sue fluttuazioni.

La biopsia liquida rappresenta uno strumento non invasivo rispetto alla biopsia tradizionale ed è in grado di analizzare la presenza di DNA tumorale circolante nel sangue. I dati pubblicati hanno dimostrato che attraverso questo approccio si riesce a intercettare la ricomparsa della malattia con un anno di anticipo rispetto ai metodi convenzionali di analisi.

«Questa strategia permetterà al medico curante di sapere per tempo quando la malattia sta ricominciando a crescere e aiuterà a definire, assieme alla classificazione prognostica fatta grazie all’analisi della biopsia tradizionale, quali sono le strategie terapeutiche migliori per controllare la crescita tumorale» sottolinea il dott. Sergio Marchini.

Nuove frontiere: come si verificano le recidive?

Esiste un’altra domanda che richiede una risposta e che sarà oggetto di studio nei prossimi anni: come si verificano le recidive? Sempre focalizzandosi sugli stadi 1, ci sono casi in cui il tumore sembra essere stato completamente rimosso dall’intervento chirurgico, ma dopo un certo numero di mesi o anni il cancro si presenta di nuovo. 

Se le caratteristiche del genoma delle cellule tumorali sono le stesse, perché in alcuni casi la malattia resta confinata nella sede ovarica e in altri forma delle micrometastasi, che dopo alcuni anni recidivano, mentre in altri casi la malattia si presenta già metastatica all’esordio?

Queste domande meritano una riflessione profonda e la capacità di spostarsi da una visione focalizzata solo sulla cellula tumorale ad una più ampia, che coinvolge anche il tessuto in cui il tumore si sviluppa, quello che noi chiamiamo microambiente tumorale.

Il microambiente tumorale ha un ruolo in tutto questo e oggi sappiamo che il tipo di cellule immunitarie che si trovano intorno al tumore e il loro comportamento possono influenzare il successo o l’insuccesso delle terapie.

Uno dei prossimi passi del gruppo di ricerca guidato dal dott. Marchini sarà proprio quello di indagare le caratteristiche del microambiente del tumore ovarico, per acquisire sempre più informazioni utili a contrastare il suo sviluppo e l’insorgenza di recidive. Questo l’obiettivo del prossimo progetto di ricerca che va sotto il nome di MINERVA (Multimodal IntegratioN data in EaRly stage oVArian cancer)

«Una visione a 360 gradi del tumore ovarico e dell’ambiente che gli sta intorno, in un prossimo futuro, ci aiuterà a curare sempre meglio e con maggiore efficacia le pazienti, in modo personalizzato rispetto al tipo di alterazioni presentate dal carcinoma» conclude Marchini.